Nell’articolo “Ricomincia da te” nel menzionare l’accezione negativa che ha assunto comunemente la parola crisi in relazione al cambiamento, abbiamo accennato al tema del pessimismo appreso che merita l’approfondimento.
È abbastanza frequente sentire la divisione delle persone in due categorie nette: quelli del bicchiere mezzo pieno e quelli del bicchiere mezzo vuoto, ovvero ottimisti e pessimisti.
È anche abbastanza frequente sentire la difesa piuttosto accesa della propria appartenenza in una delle due categorie, quasi come se si trattasse della squadra del calcio, dove i pessimisti sembrano essere un po’ più agguerriti a sostenere la validità della propria posizione e l’illusorietà dell’ottimismo, e il fatto che qualcuno sia “nato” come ottimista o pessimista.
In realtà sia il pessimismo che l’ottimismo sono modi di vedere e di interpretare la realtà e i fatti che accadono. Che come tali non sono innati, ma appresi.
Ovvero, abbiamo imparato a interpretare gli avvenimenti a cui quotidianamente la vita ci sottopone e dargli un significato piuttosto che un altro.
In pratica, gli eventi sono soltanto una serie di esperienze, siamo noi che gli attribuiamo un’interpretazione, in base alla quale siamo indirizzati a provare un certo tipo di emozioni piuttosto che un altro.
Si tratta di stile cognitivo di spiegazione causale degli eventi. Che di conseguenza indirizza a provare certo tipo di emozioni in risposta.
È per questo che un ottimista tende a provare più spesso le emozioni positive (gioia, felicità, speranza, entusiasmo…) e un pessimista tende a provare più spesso le emozioni negative (tristezza, rabbia, svogliatezza, scoraggiamento…).
Parliamo della frequenza maggiore, della quantità di casi in cui si riscontra l’insorgenza di un tipo di emozioni, non di esclusività.
È chiaro che entrambi provano anche le emozioni diverse, un pessimista prova anche la felicità, e un ottimista prova anche la tristezza.
Questo fenomeno di interpretazione dei fatti e attribuzione del significato è stato individuato dallo psicologo Martin Seligman, fondatore di Psicologia Positiva, mentre stava studiando il fenomeno della depressione.
Il suo studio del fenomeno depressivo è stato scaturito dall’osservazione del comportamento in risposta al condizionamento alla paura durante gli esperimenti di Richard Solomon sui cani, avvenuta casualmente, ma di cui Seligman fu incuriosito al punto di approfondirlo sugli esseri umani e di fondare la corrente di Psicologia Positiva.
Per precisione, Seligman ha parlato del fenomeno di impotenza appresa.
Queste sue parole dovrebbero farci riflettere molto: “Il pessimismo dei bambini è in parte appreso dagli adulti di riferimento, come genitori, insegnanti, educatori.
I vostri figli sono come spugne: assorbono ciò che dite e “come” lo dite“.
Il pessimismo, la scarsa resilienza e l’insoddisfazione verso la vita andrebbero viste come cattive abitudini e non sono ereditarie nel senso di essere innate, ma sono fortemente influenzate dall’ambiente familiare.
Noi osserviamo il modo di reagire delle persone di riferimento intorno a noi e ascoltiamo ciò che viene detto (compresi mezzi di informazione, letture e commenti che possiamo anche non ascoltare attentamente), e così apprendiamo queste modalità: si tratta dell’apprendimento informale, che è anche più incisivo dell’apprendimento formale, in quanto esistono le implicazioni del coinvolgimento emotivo.
In pratica, siamo condizionati, per di più a nostra insaputa.
L’apprendimento dell’impotenza si verifica mediante l’esperienza diretta, concreta e spesso ripetuta della futilità del proprio comportamento, ovvero dell’inutilità delle proprie risposte durante il tentativo di gestione di una situazione.
L’impotenza appresa è una condizione psicologica caratterizzata dall’aspettativa della fallacia delle proprie azioni, dall’idea che le proprie azioni non servono, non consentono di controllare o modificare una data situazione e non hanno alcun effetto sugli eventi.
Ed ecco da dove provengono le frasi: “Non ce la faccio. Tanto non serve a niente. Non posso cambiare. Non sono capace. Tutto è inutile. Andrà male” e simili, che generano di conseguenza un atteggiamento e comportamento passivo.
Naturalmente, che tipo di emozioni stimola questo modo di vivere?
Seligman ipotizzò che l’impotenza appresa rappresentava il punto di partenza per lo sviluppo della depressione.
Esaminando gli animali e gli esseri umani che avevano partecipato agli esperimenti sull’impotenza appresa, riscontrò che tutti coloro che non potevano controllare con le loro azioni la situazione stressante mostravano diversi sintomi corrispondenti ai criteri per la diagnosi di depressione: umore negativo, perdita di interessi e di appetito, insonnia, perdita di energia e di concentrazione, percezione della futilità ed inutilità delle proprie azioni.
Se la depressione poteva essere determinata dalla credenza nella futilità delle proprie azioni (a cui si associano tutti gli altri sintomi), ovvero se la depressione era dovuta ad uno stato psicologico di impotenza, è interessate notare che non tutti coloro che sperimentavano una condizione di impotenza diventavano depressi; avrebbero potuto demoralizzarsi temporaneamente, ma non cadevano in depressione.
Perché?
Secondo Seligman, quello che conduceva molto probabilmente da un’esperienza di impotenza appresa ad una vera e propria depressione, era lo stile esplicativo pessimistico.
Lo stile esplicativo consiste nella modalità abituale con cui una persona spiega gli eventi: termini le parole ed i significati che tipicamente vengono formulati di fronte ad un successo o ad un fallimento.
Uno stile esplicativo pessimistico è caratterizzato dalla tendenza ad attribuire agli eventi negativi delle spiegazioni causali di tipo:
–Permanente: si crede che gli eventi negativi dureranno per sempre nella propria vita (“Sarà sempre così ed è da sempre così”; “Non capisco mai niente!”; “Sei sempre cattivo con me”). La permanenza riguarda la dimensione temporale della causalità;
–Pervasivo: si crede che un evento negativo coinvolge tutta la propria esistenza ed è universale (“Capitano tutte a me”; “La mia vita fa schifo”; “Non piaccio a nessuno”; “Il mondo è un posto orribile” e perfino “Mai una gioia”). La pervasività è relativa alla dimensione spaziale;
–Personale: si crede che la causa di un evento negativo sia la propria (“Va così perché io sono incapace”; “Sono io ad essere sbagliato”; “Tutto è colpa mia!”). La personalizzazione implica una causalità interna delle esperienze spiacevoli e riduce l’autostima.
Questa modalità, essendo appresa, può essere cambiata. C’è speranza, come direbbe un ottimista. Il processo dell’empowerment ha a che fare con questa tematica.
Negli articoli sull’ottimismo avevamo menzionato alcune strategie relative a come favorire l’ottimismo nei bambini, che possono essere applicate a tutte le età, ma approfondiremo ulteriormente questo argomento.
E tu, come tendi ad interpretare la realtà e i fatti che accadono? Dimmelo nei commenti!